domenica 8 ottobre 2006

Sempre di fronte...

Conoscere l’altro, banco di prova dello sguardo antropologico.
Ma se l’altro fosse radicalmente tale, senza alcuna somiglianza, analogia, coincidenza con il soggetto portatore dello sguardo, convenzionale detentore dell’identità, resterebbe definitivamente irraggiungibile nella sua alterità, monolite in conoscibile, impossibile interlocutore di un impossibile dialogo.
In effetti l’identico tende a ritrovare nell’altro, al di là delle puntuali differenze, i tratti che rinviano alla comune umanità e che consentono ad ambedue una reciproca conoscenza. Possiamo conoscere l’altro, in quanto egli è come noi; è una diversa, eppure analoga se non identica, formulazione di noi stessi.
L’antropologia rappresenta, in questa prospettiva, il nostro sforzo di ritrovarci nell’altro, di rifletterci in esso. Se ci rispecchiamo nell’altro per conoscerlo e conoscersi, l’antropologia si costituisce di fatto come ininterrotta, anche quando inconsapevole, autobiografia, frutto del nostro sforzo inesausto di comprenderci attraverso l’altro, di comprendere l’irripetibile paradigma di umanità che rappresentiamo per noi stessi, soggetto e oggetto di discorso, inizio e approdo di itinerari di conoscenza, che non potrebbero essere se uno dei due termini venisse a cadere. L’antropologia è a mio avviso, sempre e comunque autobiografia, ma questo non va inteso come celebrazione di un’impossibile autarchia, se non, addirittura, autismo.
Lo sguardo antropologico parte dal soggetto e a questi ritorna. Ma dopo un viaggio necessario in cui ha incontrato l’altro e si è impegnato profondamente a conoscerlo.
La conoscenza di sé, frutto della tensione antropologica, non è la stessa di quella che si avrebbe comunque, senza l’intenso lavorio di cui qui si discorre; è conoscenza arricchita di questo itinerario extra moenia, è conoscenza frutto del colloquio instaurato con l’alterità; è, integralmente e compiutamente, sapere, se sapere è “superare la resistenza dell’alterità”.
Ho detto dello sforzo di rifletterci nell’altro, del nostro specchiarci in lui.
Si delinea così il tema dell’antropologia come specchio. Ma l’antropologia consiste essenzialmente, come si è appena detto, in un’interrotta, anche se quasi sempre inconsapevole, autobiografia. Lo specchio allora rinvia ad un altro specchio, si riflette in esso e questo a sua volta rinvia le sue immagini al primo, che le restituisce in una sequela automolteplicantesi, perché non di uno specchio soltanto si tratta, ma di una pluralità di specchi e, quindi, di un’estesissima molteplicità di immagini.
L’antropologia, così, non è più soltanto lo “specchio dell’uomo”, ma una stanza degli specchi, che trasmette al singolo uomo una miriade di immagini, in un groviglio di sguardi incrociatesi, attraverso i quali gli uomini dicono il loro bisogno di non essere soli, la loro esigenza di un senso, purchessia, del loro esistere.
Victor Turner sottolineando che “riti, drammi e altri generi performativi sono spesso orchestrazioni di media, non espressioni di un unico medium”, polemizzano con alcuni strutturalisti che hanno sostenuto che “si emette lo stesso messaggio con codice media diversi per meglio sottolinearlo mediante la ridondanza. Lo stesso messaggio in media diversi è in realtà una serie di messaggi che variano leggermente l’uno dall’altro, poiché ogni medium aggiunge il proprio messaggio generico al messaggio che veicola”. Per Turner “il risultato è qualcosa di simile a una stanza degli specchi - specchi magici, ognuno dei quali riflette le immagini che gli giungono rimbalzando da uno specchio ad un altro.
Nel mio discorso, l’espressione stanza degli specchi, assume un significato più ampio, volendo comprendere con essa l’intero ambito antropologico, il suo interrogare interrogandosi, il suo inesausto tentativo di decodificare la molteplicità dei linguaggi, spesso criptici, che accompagna l’umana fatica di essere nel mondo senza restare schiacciati da una irrimediabile datiti.
Stanza degli specchi come luogo ideale nel quale, attraverso l’infinita rifrazione di parole e immagini si rendono possibili juxta propria principia – perché soltanto juxta propria principia sono possibili – le nostre strategie conoscitive, che realizzano un nostro costitutivo desiderio di conoscerci conoscendo. Rifrazione di parole e immagini attraverso la quale si dispiegano e si riflettono gli umani linguaggi e multiformi codici per intenderli.
Ma anche gli specchi non sono innocenti; ce lo ricordano fra gli altri Schnitzler. Il protagonista della sua Fuga nelle tenebre si reca nella stanza da bagno, che, lo si vedeva bene, solo per esigenze di tempi nuovi riconosciute a malincuore, da una qualche soffitta inutilizzata era stata adattata all’uso attuale. Una lampada giallastra nel soffitto diffondeva scarsa luce nello spazio senza finestre, e attraverso lo specchio bislungo, che pendeva ad una parete in una liscia, vecchia cornice dorata, andava dall’alto al basso un’incrinatura.
L’incrinatura segna, deformandolo, il nostro volto rispecchiatosi e il nostro tempo è insidiato dalla percezione che noi stessi, come ha visto un poeta cieco “siamo il nostro ricordo/ un museo immaginario di mutevoli forme/ specchi rotti in un mucchio”.
Luigi Maria Lombardi Satriani
La stanza degli specchi

2 commenti:

Anonimo ha detto...

...la città della rinascita, precaria, confusa, affollata, degradata, sporca e incoerente. Tutto questo è affascinante; terribilmente vero e meravigliosamente irreale.

barrysulpalco ha detto...

applausi!
Bello davvero....