domenica 28 maggio 2006

Camere Separate

Legge, di preferenza il Vecchio Testamento,in particolare i profeti Isaia, Geremia e Osea. Alla base di questa scelta non c’è solamente una predilezione estetica, forse piuttosto il fatto che ancora lui non sente la redenzione arrivata nella sua vita; e i vangeli gli appaiono come tableaux di una fiaba che non comprende. Quando invece legge Osea, quando riflette sulla metafora per cui Dio sceglie di concepire il suo popolo dal ventre di una prostituta; quando considera il fatto che Dio si rivolge al figlio con il linguaggio dell’innamorato, quando lo vede chinarsi sul piccolo Israele per insegnargli a camminare, tenendolo per mano; quando lo vede adirarsi per il tradimento e per la sordità con la quale viene ricambiato il suo amore estremo, allora Leo avverte in sé la propria vocazione religiosa come qualcosa di irrinunciabile. Non gode della serenità del mistico, ma solo dei turbamenti di un anima votata alla ricerca.
Più volte gli è capitato di dire “non posso vivere senza Dio, ma posso vivere senza religione”. Poiché se ha abbandonato la pratica della religione in cui è cresciuto e attraverso la quale ha imparato a segnare il mondo, il suo ambiente, i suoi sentimenti, l’ha fatto per una inconciliabilità di fondo fra la sua vita e il suo misticismo. L’ha fatto non solo perché portava la sua emotività, ma anche la sua sensualità, nella ricerca di Dio. Nello stesso tempo vedeva la religione vissuta in modo sdilinquito, atrocemente svirilizzato senza la passione feconda, la recettività violenta della femminilità o l’esuberanza della virilità. Una religione senza sesso per gli uomini che hanno paura delle passioni e della forza dell’amore. Una religione accomodante, borghese, il più delle volte ipocrita. Mentre invece, anche nella sua silenziosa preghiera, lui era consapevole di mettere in gioco tutta la sua sessualità. Per questo leggeva Osea. Perché in quelle pagine non c’era una visione esclusivamente mentale del rapporto fra Dio e il suo popolo, ma una rappresentazione di corpi, di prostituzione, di abbandono, di delirio della separazione, di rabbia di paterna protezione. Come succede, da sempre, fra gli uomini che si amano.
A volte gli era capitato di pregare, mentre faceva l’amore. Il suo sguardo si distendeva sulla nudità del corpo con una devozione castissima, addirittura verginale. Sentiva il miracolo di avere accanto a sé la bellezza della creazione e di poterla contemplare in silenzio. Di poterla toccare, assorto, con le punta delle dita così come, con lo sguardo, poteva accarezza, in certi tramonti la montagna.

Io voglio vivere seguendo la mia natura. Perché la mia libertà deve essere giudicata dalla coscienza altrui? Perché devo essere biasimato per cose di cui rendo grazie? Questo è scritto nella lettera ai Corinti. E allora perché devo pentirmi? Io desidero essere felice. Come espiazione mi pare già sufficiente il fatto di dover essere vivo. Non sono stati dieci, cento, mille uomini a salvarci, padre, ma uno solo; e se è bastata una vita, una soltanto a riconciliare in Dio quella di miliardi di creature, questo può solo significare l’enormità del dolore di vivere. Io non posso amare la religione del cilicio e della pena. Io vorrei amare la religione della pienezza. Vorrei essere felice nella mia religione, perché la sto sentendo come un bisogno biologico, come mangiare, come bere, come fare l’amore. Ma voi sembrate non capire questo. Io cerco di parlare con sincerità, ma voi negate la mia stessa esistenza. Eppure per quello che lei o io ne possiamo sapere, anche i cani hanno un Dio.

PIERVITTORIOTONDELLI

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